Perdere l’amore e perdere il Catania, è la stessa cosa. Smettiamola di credere nei miracoli ultraterreni, nella cieca beneficenza (quella era la fortuna), nei “liquidi da immettere” di cui tutti leggiamo o scriviamo, auspichiamo e preghiamo come se, inoculandoli, otterremmo il vaccino salvavita del nostro magico Catania 1946.
Leggiamo da settimane di agonia prolungata, di eutanasia come se si trattasse della panacea di tutti i mali ma nessuno ha il coraggio di staccare quella maledetta/benedetta spina. Maledetta: perché potevamo ripartire più forti di prima con una società sana e libera da masse debitorie insostenibili che avrebbero schiacciato, crediamo, almeno 15 club su 20 di Serie A; benedetta: chi oserebbe accompagnare il Catania da una riva del fiume all’altro consegnandolo nelle mani di Caronte? Chi avrebbe il coraggio di gettare la spugna dopo accecanti ostentazioni che, tra incredulità e speranza, ci avevano spinti a stropicciare gli occhi credendo di aver imboccato la strada giusta?
Catania, bella signora sempre affaccendata tra i servizi domestici, come pulire le coscienze, detergersi dalle macchie del recente passato (leggasi: omicidio-Raciti, Treni del Gol), lavare i piatti sporchi in casa propria senza riuscire a evitare che i soci della SIGI si azzuffassero tra loro fino a lanciarseli a mo’ di frisbee lasciando che qualcuno volasse via dalla finestra, colpendo in testa il tifoso di passaggio che non credeva ai propri occhi.
Cattiva comunicazione, cattivo epilogo, cattivi alcuni soci nella gestione morale ancor prima che economica mentre, pochissimi altri, si dannavano cercando di salvare persino l’insalvabile attraverso messaggi d’appello su un gruppo WhatsApp, forse tardivi ma quanto meno umanamente comprensibili dato il momento storico, in cui tutto sembra inutile, tutto perduto e, di conseguenza, qualsiasi tentativo anche quello apparentemente più insignificante somiglia più a un estremo guaito, di buona coscienza più che di concreta speranza.
Ci si volta indietro, come quando leggiamo un libro e decidiamo di tuffarci a ritroso nella narrazione pregressa, improvvisamente, dedicandoci entusiasmanti flashback come fossero dei calorosi abbracci: passaggi storici, vissuti e non vissuti personalmente, ma che hanno condizionato la nostra vita, persino le nostre scelte: “non vado alla comunione di Turiddu perché gioca il Catania”; “Amore sposiamoci ma non di domenica: gioca il mio Catania”.
Ogni giorno che passa, ogni lancetta che ruota, sembra avvicinarci al giorno del “grande giudizio” che non è quello universale, grazie a Dio siamo vivi, ma a sentenziarlo è l’unico Giudice che non avremmo mai voluto che si pronunciasse. Non è né sportivo né ordinario ma, all’uopo, salta fuori ora come il Mostro di Lochness, ora come la fata turchina. E’ il Tempo, che ci ha concesso momenti di alto godimento sportivo, proboscidi innalzate perennemente come se fossero un trofeo da ostentare con immenso orgoglio ma, da qualche anno a questa parte, ci ha riportato sul pianeta terra, ha ridimensionato la grandezza dei nostri sogni rossazzurri, ha giocato con le nostre coronarie e, infine, sta valutando di spedirci all’inferno.
L’inferno, il vero inferno, non è la Serie D ma l’oblio. Il rischio concreto di rimanere senza calcio per un anno è uno scenario plausibile, inutile negarlo. Catania piange, Catania guaisce, Catania aspetta ma non spera più.
(foto: calciocatania.it)