Cari tifosi, cari sorelle e fratelli rossazzurri: dobbiamo fare fronte comune. Il vero patrimonio del Catania non è pecuniario, è passionale.
Siamo noi, chi macina chilometri per seguire la squadra del cuore dietro uno stendardo griffato dal proprio club organizzato d’appartenenza, gli sbandieratori seriali che non si stancano ma, al contrario, si galvanizzano nel brandire quell’asta di sostegno come se fosse la colonna portante di un cielo rossazzurro e i tifosi “comuni”, che affrontano viaggi in auto, da soli, in treno, in aereo, pur di inondare le iridi di quella combinazione cromatica che ci fa innamorare ogni giorno di più.
Sessanta “persone”, solo sessanta. Ci hanno rovinato la finale, a tutti noi indistintamente, a chi l’avrebbe seguita dalla TV, come me, ma sperava in un Massimino stracolmo, ai gruppi organizzati che avrebbero garantito colore, calore e urla a squarciagola e agli avversari, Padova e tifosi al seguito, che avrebbero assistito a uno spettacolo indimenticabile.
Niente guerre e diatribe fratricide. Isoliamo i facinorosi, ma stringiamoci attorno al nostro amore, senza riserve, perché non è cambiato nulla per noi, 20.000 allo stadio un paio di milioni sparsi per il globo a sognare, di notte, di essere seduti sugli spalti del Massimino anche se viviamo a Treviso, a Francoforte sul Meno o a Sydney e, di giorno, la Serie B e poi la Serie A.
Ancor prima che il club corregga gli errori commessi quest’anno, ci siamo noi: gli imprescindibili, gli onnipresenti, la linfa vitale.